Stare dalla parte delle vittime; accompagnare, nel dolore, coloro che raggiungono il nostro territorio in fuga dalle principali città ucraine; porsi in ascolto e farsi prossimi attraverso gesti semplici, che restituiscano spazi e luoghi di partecipazione a chi, con la guerra, ha perso ogni punto di riferimento. Con la guerra, la vita viene portata via sia a chi muore, sia a chi sopravvive ma vede distrutte le case, le scuole, le strade, i luoghi dove si era sviluppata la vita stessa. La sfida, pertanto, è quella di mantenere lo sguardo rivolto a chi soffre, evitando di rendere ad alcuno male per male (Rm. 12,17).
Perché la pace va costruita opponendoci innanzitutto al discorso bellicista, che prende piede in un tempo dove le sanzioni, e addirittura l’invio di armi, precedono il dialogo e la mediazione; e dove si rafforza un’inutile strage innescata «perché le persone non hanno avuto il coraggio di parlarsi abbastanza». Una riflessione emersa da un gruppo di ragazzi della parrocchia di Castelnuovo Rangone che, nella Domenica delle Palme, si sono riuniti con i loro educatori nel cortile del Centro Papa Francesco; raccogliendo la proposta di una tregua pasquale lanciata nello stesso giorno dal Pontefice («Una tregua per arrivare alla pace, attraverso un vero negoziato»). Può un appello globale tradursi in un impegno locale? In che modo? Domenica scorsa abbiamo raccontato la proposta della Penny Wirton, i cui volontari hanno aperto le porte della scuola a un gruppo di persone rifugiate. Quella della Penny Wirton fa parte delle azioni comunitarie che arricchiscono il progetto «Per un’accoglienza diffusa» proposto da Caritas diocesana per mandato della Conferenza episcopale italiana e in coordinamento con la Prefettura e il Comune di Modena. Con l’accoglienza diffusa o solidale si promuove l’attivazione della comunità oltre la singola famiglia accogliente. Un’attivazione possibile grazie ad esperienze di dono, reciprocità e mutualismo che coinvolgono sia chi ospita che chi viene ospitato.
Perché la pace va costruita opponendoci al discorso bellicista, che prende piede in un tempo dove le sanzioni, e addirittura l’invio di armi, precedono il dialogo e la mediazione
L’accoglienza diffusa o solidale prevede un lavoro a tre dimensioni. La prima riguarda il lavoro con le persone e famiglie che hanno manifestato la propria volontà ad accogliere, presso la propria abitazione, i rifugiati. È grazie a queste persone di buona volontà che Caritas diocesana ha potuto progettare un percorso di accoglienza valorizzando le risorse già esistenti nel territorio. A tal fine, nelle scorse settimane sono stati realizzati circa sei incontri nel territorio diocesano, che hanno coinvolto un centinaio di persone tra famiglie disponibili ad ospitare, volontari e reti comunitarie. La seconda dimensione riguarda la conoscenza, l’ascolto e l’accompagnamento delle persone rifugiate.
A tale proposito, il Centro Papa Francesco è divenuto un luogo amico, dove le famiglie ucraine possono partecipare a laboratori di musica ed espressività, condividere il pranzo e trascorrere dei momenti di convivialità insieme agli ospiti, operatori e volontari di Caritas diocesana. La terza dimensione prevede l’incontro tra le famiglie disponibili ad accogliere e le persone destinatarie dell’accoglienza. Tali incontri hanno la finalità di generare una conoscenza reciproca previa all’accoglienza in sé, dove chi ospita e chi viene ospitato possono riconoscersi membri di una singola comunità. Ad oggi, Caritas diocesana ha promosso l’accoglienza di circa 9 nuclei per un totale di 25 persone nel territorio diocesano. Di recente, le famiglie coinvolte in questo progetto si sono rese protagoniste di alcune iniziative promosse da Caritas diocesana. È il caso della raccolta fondi proposta, sempre in occasione della Domenica delle Palme, dal laboratorio di sartoria sociale che si tiene presso il Centro Papa Francesco. L’accoglienza diffusa è pertanto una scelta nonviolenta; è la scelta di una comunità che si pone in ascolto della voce delle vittime, dei tanti fratelli e sorelle che soffrono le conseguenze del conflitto, per dire, insieme a loro, “no alla guerra”.
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